Giovanni Brusca, originario di San Giuseppe Jato nel palermitano, è stato scarcerato venticinque anni dopo il suo arresto avvenuto nel 1996 nel corso di un’azione di polizia. La sua spietatezza e la facilità con cui uccideva gli procurarono all’interno della malavita stessa il soprannome di “u verru”, “il porco”. Eppure, dopo “appena” 25 anni di carcere effettivi il boss mafioso è di nuovo fuori dal carcere. La sua decisione, quattro anni dopo l’arresto, di collaborare con la giustizia per smascherare ed estirpare Cosa Nostra gli ha fornito lo status di Collaboratore di giustizia. Dopo una falsa partenza in cui le informazioni del Brusca si rivelarono false quest’ultimo decise, mostrandosi pentito, di collaborare seriamente con la giustizia italiana. Le sue informazioni sono spesso state messe in discussione, ma sempre risultate, alla fine, veritiere.
La sua buona condotta all’interno del carcere gli ha concesso di accedere a permessi premio che hanno fatto molto discutere e oggi, dopo 25 anni, il boss è tornato in libertà dopo aver scontato la pena di 30 anni a lui destinata. La giustizia penale italiana concede ogni giorno 45 giorni di sconto sulla pena al mese in caso di buona condotta e oggi, 1° giugno 2021, a seguito dell’ultimo sconto di 45 giorni, Brusca passerà agli arresti domiciliari, che sconterà per altri quattro anni prima di diventare a tutti gli effetti un uomo libero, pur sotto la protezione dovutagli dallo Stato per via dello status di Collaboratore di giustizia.
Molte sono state le reazioni a caldo di esponenti della politica e dell’antimafia. Il leader del Carroccio Matteo Salvini, visibilmente contrariato dalla situazione, dichiara che la scarcerazione del Brusca è sintomo di una giustizia malata che l’Italia non si merita. Enrico Letta, leader del Pd, si dice contrariato, ma afferma che Brusca ha scontato la pena prevista per una legge voluta da Giovanni Falcone stesso e che quindi è giusto che venga rispettata. Lo stesso dice Maria Falcone, sorella del giudice assassinato proprio dalla mano del Brusca. “È doloroso, ma è la legge voluta da mio fratello”, dice la Falcone. La mamma del piccolo Nino Di Matteo, strangolato dallo stesso Brusca, il quale ha poi sciolto il cadavere stesso nell’acido, afferma di rispettare le sentenze, ma di non perdonare il carnefice del figlio, come il marito Santino Di Matteo, il quale aggiunge “ha sciolto mio figlio nell’acido. Se lo trovo per strada non so che succede”. Si dice indignata anche Tina Montinaro, vedova del caposcorta di Falcone, che chiede a gran voce una modifica della legge. La legge penale italiana prevede, infatti, all’art. 66 del Codice penale un massimo di pena di reclusione pari a 30 anni, ai quali si devono appunto sottrarre i 45 giorni al mese in caso di buona condotta, che portano la pena a 25 anni di carcere. Occorre ricordare che la Costituzione italiana è caratterizzata a livello penalistico dal perseguimento della risocializzazione del detenuto, che consiste quindi nel recupero del reo e nel suo progressivo reinserimento all’interno della società come un cittadino migliore di quello che era entrato precedentemente in carcere. Sicuramente il sistema carcerario italiano non è all’altezza di un obiettivo già di per sé difficile da raggiungere. Le strutture non favoriscono sicuramente la solidarietà tra detenuti e l’ambiente non giova alla sanità mentale del reo stesso, tranne in poche strutture che dovrebbero essere l’ordinario, mentre in via di prassi sono considerabili delle eccezioni, come il carcere di Bollate, dove i detenuti vengono addirittura pagati per lo svolgimento di determinate mansioni. Il sovraffollamento è un problema reale ed è raro che un soggetto che entra in carcere (magari addirittura innocente, come purtroppo non di rado capita) esca cittadino esemplare. Il sistema penale italiano non è un sistema primitivo, all’interno del quale la pena viene considerata come neutralizzazione del fuorilegge, ma ha, da Costituzione, una funzione in primis risocializzante, in secundis di intimidazione, in modo tale che faccia da deterrente sociale, che porti il cittadino a non commettere determinati reati per paura della pena, e infine, ma solo qualora effettivamente in entrambi i casi fallisca, un effetto neutralizzante.
Per questo la vicenda del boss di San Giuseppe Jato potrebbe essere sia una vittoria dello Stato italiano, qualora effettivamente il soggetto in questione risulti del tutto recuperato socialmente, sia il simbolo del suo fallimento, qualora invece torni a delinquere. In quest’ultimo caso la vicenda Brusca sarebbe effettivamente la riprova dell’inefficacia del sistema carcerario italiano.