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Interviste

Aldo Moro, 9 maggio 1978: il giorno più caldo della Repubblica

La strage di via Fani, il sequestro di Aldo Moro e la sua uccisione ancor oggi rappresentano uno spartiacque nella storia repubblicana e nello stesso tempo luogo paradossale della memoria italiana

Mariachiara Monaco
Politica Interna · 10 maggio 2021 · 5 min di lettura

Il 9 maggio del 1978, 43 anni fa, il Paese perdeva una figura simbolo della sua Storia. La mattina di quel giorno, all’interno di una Renault 4 rossa parcheggiata in via Caetani, a Roma (a metà strada tra piazza del Gesù, sede nazionale della Dc, e via delle Botteghe Oscure, quartier generale del Partito comunista), la polizia ritrovò il corpo senza vita di Moro.

Il Presidente della Democrazia Cristiana era stato rapito 55 giorni prima, in via Fani, dalle Brigate Rosse e detenuto nella cosiddetta «prigione del popolo»: accusato dai terroristi di essere l’artefice della cosiddetta «strategia dell’attenzione» verso il Pci. A segnalare la presenza del cadavere era stata la telefonata del brigatista Valerio Morucci.

Con Aldo Moro si spegneva il magnifico sogno che lo statista rincorreva, quello di un’Italia solidale che coltivava la propria eterogeneità e diversità come un valore aggiunto e non come una macchia nera da cancellare nel tentativo di un’adesione acritica a “modelli occidentali” a cui uniformarsi con timore reverenziale e servile: ma quel sogno non piaceva a tanti, non solo alle Brigate Rosse. Non piaceva a chi lasciò vigliaccamente il Presidente a spendere le proprie ultime drammatiche settimane a scrivere quelle 86 lettere.

Pagine deteriorate dal tempo e dalla presenza di cloruro di sodio sulla carta, forse sudore o forse lacrime come lasciano pensare alcune sbavature dell’inchiostro, ricordi tragici di un uomo improvvisamente fragile come tutti gli altri dinanzi alla paura: non più il Presidente degli italiani, ma una persona, inascoltata, che chiedeva aiuto a quelle istituzioni e a quello Stato di cui era stato elevato e fiero “servitore”. Termine troppo utilizzato e sempre più svuotato, in questi anni di bassezze e qualunquismi, ma denso di significati in relazione all’uomo Aldo Moro: colui che immaginava il Governo di “solidarietà nazionale”.

I giorni passati nella prigionia furono scanditi non solo dai comunicati stampa che le BR mandavano puntualmente alle testate giornalistiche, ma anche dalle lettere, scritte di pugno da Aldo Moro (nonostante qualcuno ne mettesse in dubbio la veridicità). Oltre a quelle indirizzate ai politici, tra cui Craxi, Zaccagnini, Cossiga e Andreotti, ce ne furono diverse riservate alla famiglia, lettere da cui traspare il lato emotivo di un uomo prigioniero lontano dagli affetti.

Destinatari principali furono la moglie, la “dolcissima Noretta”, come Moro la chiamò nell’ultima lettera che le scrisse dalla prigionia e i quattro figli Maria Fida, Agnese, Anna e Giovanni: “Ti abbraccio forte, Noretta mia, morirei felice se avessi il segno della vostra presenza, sono certo che esiste, ma come sarebbe bello vederla”.

Settimane di prigionia, di speranze, preghiere, ed appelli disperati all’indirizzo degli amici di un tempo: poi la fine.

La sua morte fu uno di quegli spartiacque, di quei bivi della storia dinanzi ai quali è lecito pensare con sicurezza che, se si fosse presa un’altra direzione, allora sì che le cose sarebbero state diverse: forse non migliori, perché questo è impossibile dirlo. Ma radicalmente diverse.

Ma perché venne rapito e poi giustiziato? Uno dei motivi fu sicuramente l’accurata tessitura del “Compromesso storico” con il Pci di Enrico Berlinguer.

L’esigenza di cercare delle convergenze parallele tra i due maggiori partiti politici italiani di massa divenne di imprescindibile importanza negli anni’70, periodo in cui era necessaria una loro proficua collaborazione per affrontare la pericolosa crisi economica, politica e sociale a cui il paese stava andando incontro. Un primo passo verso una possibile cooperazione tra Dc e Pci avvenne dopo le elezioni politiche del 1976, con i democristiani che raggiunsero il 38,71% dei consensi e con i comunisti che si attestavano al 34,37%. Un dato di sostanziale equilibrio, tanto che lo stesso Aldo Moro affermò pubblicamente che, alla tornata elettorale, “Ci sono stati due vincitori”. Nacque così, il 30 luglio 1976, il terzo governo guidato da Giulio Andreotti.

Un riavvicinamento politico di considerevole entità, che vedeva in Moro e Berlinguer i suoi più grandi artefici. Un accordo sicuramente non facile, dato che Moro stesso impiegò diversi anni per farlo digerire agli alleati dell’Alleanza Atlantica.

Su cosa indusse davvero entrambi i leader ad inaugurare quella nuova stagione politica, che prometteva bene e finì invece male, è, ancora oggi, oggetto di studio e di attenzione da parte degli storici. Certamente ebbe notevole peso la consapevolezza, presente sia in Moro quanto in Berlinguer, che la guerra fredda fosse vicina ai titoli di coda. Già nel 1974, vi era stato un passaggio essenziale del “disgelo “tra Usa ed Urss, con il viaggio a Mosca del presidente americano Richard Nixon per la firma, insieme al presidente sovietico Leonid Breznev, del secondo trattato S.A.L.T., indirizzato verso la riduzione delle armi strategiche e nucleari.

Lo statista democristiano aveva ben compreso come, in quel momento cruciale, vi fosse l’urgenza di un dialogo aperto e costruttivo fra tutti i partiti del cosiddetto “arco costituzionale”.

Fu proprio in quel preciso istante che Aldo Moro venne preso di Mira dalle BR.

I Brigadisti proposero uno “scambio”, all’interno del loro comunicato numero 8, diedero una lista ampia di brigatisti da liberare in cambio del presidente Moro. Lo scopo era di prendere la leadership del fronte della lotta armata ed essere riconosciuti come interlocutori politici.

La politica italiana si divise in due fazioni, da una parte il fronte della fermezza, composto dalla Dc, Pci, dal Psdi, dal Pli e dal Partito Repubblicano, che rifiutava qualsiasi ipotesi di trattativa, e dall’altra il fronte possibilista nel quale spiccavano Bettino Craxi, i radicali, la sinistra non comunista, i cattolici progressisti e uomini di cultura come Leonardo Sciascia.

Lo stesso Papa Paolo VI, amico di Aldo Moro, rivolse un appello pubblico ai brigatisti, probabilmente la Santa sede era pronta a versare un riscatto per la liberazione, ma ancora oggi rimane un’ipotesi.

Sta di fatto che Moro venne lasciato solo, anche dai suoi più fedeli collaboratori di partito; dalla “prigione del popolo” pretendeva che venisse effettuato lo scambio, ma gli unici a optare per il sì erano i socialisti, secondo i quali lo Stato avrebbe dovuto tutelare la vita dei cittadini.

Andreotti dichiarò: “Abbiamo giurato di rispettare e di far rispettare le leggi. Questo è un limite che nessuno di noi ha il diritto di valicare.” Craxi, invece, lavorava in fretta verso l’apertura: le BR lo vennero a sapere e, sempre via lettera, Moro lo supplica di fare presto. Berlinguer si rifiutò di trattare. Pertini disse che accettare lo scambio avrebbe significato non rispettare la memoria di poliziotti, carabinieri e cittadini assassinati dalle BR.

Facile indignarsi senza muovere un dito, fingere sconcerto arroccati nella propria fortezza, sacrificare vite in nome della sicurezza pubblica. De André cantava “lo Stato che fa si costerna, s’indigna, s’impegna poi getta la spugna con gran dignità”.

Aldo Moro era conosciuto anche come “Il professore”, insegnava diritto penale presso l’università sapienza di Roma.

Per i suoi studenti sarà sempre un punto di riferimento, e non soltanto dal punto di vista accademico; adorava stare in mezzo ai giovani, al punto da suscitare invidia talvolta degli stessi familiari. “Dei suoi studenti – dichiarerà nel 1980 in un’intervista la figlia Maria Frida – noi figli eravamo gelosi perché dedicava più tempo a loro che a noi” e, per certi versi, era vero.

Nonostante i suoi molteplici impegni politici, non aveva mai saltato una lezione, e quando non poteva presenziare all’università, riusciva sempre a recuperare la lezione, magari invitando i suoi studenti nella casa romana, o addirittura come accadde più volte, al Ministero degli Esteri.

Leggendarie sono le famose chiacchierate al termine delle lezioni istituzionali, un rito che entusiasmava gli studenti di qualsiasi fede politica, qualcosa che in quegli anni divideva, e tanto.

Si parlava di tutto, attualità, filosofia, diritto, persino di cinema. Il professore infatti era un accanito cinofilo. Adorava i western, i film polizieschi, e principalmente Totò, di cui conosceva ogni battuta e che imitava piuttosto bene.

Portava spesso i suoi ragazzi a visitare le carceri, a toccare con mano e senza inutili filtri una realtà drammatica. La pena maggiore, era solito ripetere, non è tanto la reclusione in sé, quanto la lontananza dagli affetti personali, il distacco dalla vita di tutti i giorni, l’incertezza del domani.

Il 21 aprile, proprio i suoi ragazzi, che Moro spesso spronava, ricordandogli che dovevano essere al centro della storia, firmarono un appello, per chiedere al governo, alla DC e a tutte le forze politiche di riconsiderare la linea della trattativa. Ma l’appello purtroppo cadde nel vuoto, quelle firme che chiedevano di considerare la vita umana superiore a ogni valore, rimasero segni neri su un foglio bianco che nessuno ebbe mai il coraggio di leggere.

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