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Interviste

L’Iran al voto, sotto l’attento sguardo di Ali Khamenei

Sabato scorso è stato l’ultimo giorno utile in Iran per registrare le proprie candidature alla presidenza del paese, in vista delle elezioni del 18 giugno

Fabrizio Chevron
Esteri · 18 maggio 2021 · 5 min di lettura

Sabato scorso è stato l’ultimo giorno utile in Iran per registrare le proprie candidature alla presidenza del paese, in vista delle elezioni del 18 giugno. Il Consiglio dei Guardiani, una sorta di corte costituzionale iraniana, esaminerà nelle prossime ore le 592 domande ricevute, per giungere il 28 maggio a rilasciare una lista definitiva di non più di 10 candidati autorizzati a presentarsi al voto. Compito dell’organo è appunto quello di supervisionare le elezioni iraniane, ma data la sua natura e composizione ne mina in parte il carattere democratico.

Il Consiglio dei Guardiani è infatti composto da 6 ecclesiastici e 6 giuristi, dei quali i primi sono scelti dal Leader Supremo Ali Khamenei, e i secondi dal Presidente della Corte Suprema e approvati dal parlamento. Il vertice della giustizia iraniana è però a sua volta nominato dal Leader Supremo, e i membri del parlamento devono ottenere l’approvazione del Consiglio dei Guardiani.

E quindi chiaro che l’intero processo è fortemente controllato dal Leader Supremo, ovvero da Ali Khamenei. Ma le elezioni in Iran sono comunque un evento rilevante, soprattutto alla luce delle negoziazioni in corso a Vienna in merito all’accordo sul nucleare, alle tensioni in medioriente e alla lotta interna a Teheran tra le principali fazioni politiche, ovvero i “pragmatici”, i “riformisti”, i “conservatori o integralisti” e gli esponenti vicini ai Pasdaran. Conservatori e militari, al contrario dei riformisti e dei moderati, sono solitamente visti come meno inclini al dialogo con l’Occidente, nonché sostenitori di politiche più aggressive sul piano regionale mediorientale.

La campagna elettorale verterà principalmente sul come rilanciare l’economia del paese, devastata dalle sanzioni internazionali, dalla corruzione e dalla pandemia di Covid-19. Altro argomento chiave sono i rapporti con l’Occidente, con la Cina e l’accordo sul nucleare iraniano. Il presidente uscente Hassan Rouhani, un moderato a metà fra i riformisti e i conservatori, non ha potuto ricandidarsi in quanto la costituzione iraniana non prevede la possibilità di correre per un terzo mandato consecutivo.

Il grande favorito, secondo la stampa iraniana e gli osservatori esteri, sembra quindi essere Ebrahim Raisi, presidente della Corte Suprema. Sconfitto alle elezioni del 2017, Raisi è uno strenuo conservatore conosciuto per il suo ruolo nelle esecuzioni di massa del 1988, quando in Iran migliaia di oppositori di Khomeini e la rivoluzione vennero condannati a morte. Il ricercatore Omer Carmi ha indicato come Raisi goda probabilmente del sostegno di Ali Khamenei, il quale lo ha implicitamente incentivato a candidarsi in un recente discorso alla nazione. Carmi ha inoltre sottolineato come l’obiettivo di Raisi sia un domani sostituire il Leader Supremo stesso, considerata l’avanzata età di Khamenei.

Albert Wolf, membro del Washington Institute, ha però evidenziato come alle elezioni del 1997, 2005 e 2013 coloro che erano stati identificati come i favoriti da stampa ed analisti sono poi stati sconfitti a sorpresa alle urne. La vittoria di Raisi non è quindi da dare per scontata, ed è utile analizzare i profili degli altri contendenti. Un secondo importante candidato e volto noto in Occidente è Mahmoud Ahmadinejad, ex-presidente dell’Iran dal 2005 al 2013 e figura ancora molto popolare e polarizzante, nonostante il massacro che ha seguito la sua contestata seconda rielezione.

Secondo i commentatori iraniani Ahmadinejad verrà però probabilmente squalificato dal Consiglio dei Guardiani, come già successo alle elezioni del 2017, quando addirittura il Leader Supremo Ali Khamenei gli sconsigliò pubblicamente di candidarsi. L’ex-presidente iraniano si è infatti spesso esposto contro l’apparato giudiziario, criticando la dilagante corruzione nel paese, e si è ritrovato infine ai ferri corti con Khamenei nel corso dei suoi due mandati da presidente.

Proseguendo, un rilevante profilo è quello di Ali Larijani, in passato negoziatore dell’accordo sul nucleare ed ex-presidente del parlamento. Larijani, riconducibile alla fazione dei conservatori, si è presentato alle elezioni come “indipendente” e secondo Omer Carmi potrebbe divenire il principale concorrente di Raisi nel caso riuscisse a intercettare il voto dei sostenitori di Hassan Rouhani. Larijani ai microfoni delle televisioni iraniane si è detto speranzoso che a Vienna venga salvato l’accordo sul nucleare e che vengano rimosse le sanzioni al paese, in modo che l’economia nazionale possa tornare a respirare.

I riformisti dal canto loro hanno presentato più candidati fra cui Mohsen Rafsanjani, figlio dell’ex-presidente Akbar Rafsanjani, e Eshaq Jahangiri, attuale vice-presidente sotto Rouhani, nella speranza che alcuni di loro passino la forbice del Consiglio dei Guardiani notoriamente più vicino ai conservatori. Jahangiri ha affermato di aver deciso di candidarsi in seguito alla mancata registrazione di Javad Zarif, il popolare ministro degli esteri a lungo corteggiato dai riformisti, che ha però sempre escluso una sua corsa alla presidenza.

Per la giornalista iraniana Fereshteh Sadeghi la candidatura di Jahangiri è frenata dai problemi del fratello con la giustizia, nonché dal fatto che essendo l’attuale vice-presidente del paese sarà oggetto di attacchi in merito alle politiche economiche implementate negli ultimi anni dall’attuale governo. Infine, sono diversi i candidati vicini alle Guardie della Rivoluzione Islamica.

Meritano sicuramente una menzione Saeed Mohammad, generale di brigata ed ex-vertice dell’impresa di costruzione dei Pasdaran, l’ex-ministro della difesa nonché anch’esso generale di brigata Hossein Dehghan e Alireza Afshar, ex-comandante dei Basij. Omer Carmi ha definito gli esponenti Pasdaran come “poco stimolanti”, suggerendo la possibilità che essi abbandonino la corsa per sostenere un altro candidato conservatore, per esempio Raisi.

I principali candidati qui discussi dovranno però ora convincere il popolo iraniano dell’importanza del voto, nonostante la rigidità del sistema e la mancanza di un candidato carismatico che possa con successo fare appello all’elettorato riformista, o ai moderati vicini al presidente uscente Rouhani. Già alle scorse elezioni parlamentari del 2020 si era registrata un dato sconfortante in merito alla partecipazione, un 42,6% ben al di sotto del 60% circa registrato alla tornata del 2016.

Il Leader Supremo Khamenei e altri funzionari iraniani allora incolparono principalmente il Covid-19 e la “propaganda estera”, ma un peso rilevante nello scoraggiare gli elettori lo ebbe il Consiglio dei Guardiani, il quale squalificò gran parte dei candidati non-conservatori. Una rinnovata affluenza alle urne, accompagnata da una vittoria di un candidato conservatore, potrebbe essere invece interpretata come l’utilizzo da parte della popolazione del voto come valvola di sfogo del proprio scontento, soprattutto in merito alla disastrosa situazione economica.

Inoltre, un’eventuale alta partecipazione elettorale verrebbe sicuramente utilizzata da Ali Khamenei in chiave propagandistica come prova della legittimità dell’ordinamento politico iraniano, contrapposto alle monarchie del Golfo. Stampa specializzata e cancellerie occidentali sembrano star seguendo con attenzione le elezioni iraniane, preoccupate dalla possibilità che il prossimo presidente del paese sia una figura distante dal pragmatismo delle amministrazioni Rouhani.

Non è però detto che l’eventuale ascesa di un integralista e militarista alla presidenza stravolga i già complicati rapporti tra Iran e Occidente, o il resto del Medio Oriente. L’avvenuta ripresa delle negoziazioni sul nucleare iraniano, nonostante l’avvicinarsi del voto, ha segnalato l’intenzione del Leader Supremo Ali Khamenei di cercare nuovamente un dialogo con l’Occidente, indipendentemente da quale fazione politica governi a Teheran.

Parallelamente, la lunga presidenza Rouhani non si è tradotta in un Iran più dialogante sul piano regionale, ma al contrario Teheran ha accentuato la sua presenza militare in diversi paesi esteri, quali Siria, Iraq e Yemen, ai danni dei suoi principali avversari. Infine, se da un lato è vero che la strategia di “Maximum Pressure” pianificata da Trump per contenere l’Iran ha sostanzialmente fallito, è altresì vero che le sanzioni economiche e la pandemia di Covid-19 hanno gravemente danneggiato l’economia iraniana.

Il prossimo presidente iraniano ha quindi bisogno di una finestra sul piano internazionale, per quanto limitata essa possa essere, per poter alleviare le sofferenze delle finanze nazionali.

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